AL SORGERE DELLA VITA – 20 Maggio 2023

Contraccezione d’emergenza RU 486.

  • Dott. Francesco Lanatà: Il punto di vista medico
  • Don Simone Barbieri: Il punto di vista bioetico

La giornata è stata presentata nel servizio di Andrea Bernardini con una intervista a don Simone Barbieri sul settimanale diocesano di Pisa TOSCANA OGGI – Vita Nova del 16 luglio 2023.

Sette giorni. È il tempo minimo di riflessione concesso dalla legge italiana ad una donna appena uscita da un consultorio pubblico con in mano il certificato che la autorizza a prendere contatto con una struttura – pubblica o privata – per abortire. Sette giorni in cui può succedere di tutto. Anche che la donna torni sulla sua decisione.

Se ne è parlato, di recente, a Pisa nei locali della parrocchia di Sant’Apollinare in Barbaricina, in una giornata di studio destinata a consulenti familiari in servizio nei consultori Ucipem e di ispirazione cristiana della Toscana.

Relatori dell’incontro: il professor Francesco Lanatà, presidente nazionale della rete dei consultori Ucipem (e presidente del consultorio di Pisa). E don Simone Barbieri, 39 anni, sacerdote livornese, vicerettore del seminario interdiocesano di Pisa, bioeticista, che ha affrontato temi delicatissimi in diverse pubblicazioni scientifiche e morali: come «L’aborto chimico. Confutazione di alcune tesi scelte del panorama italiano» (Pharus, Livorno 2018); «L’aborto banalizzato e mascherato e le conseguenze della mentalità contraccettiva: questioni scientifiche e morali», in G. Brambilla (a cura di); infine «Riscoprire la Bioetica. Capire, formarsi, insegnare» (Rubbettino, Soveria Mannelli 2020, pp. 179- 240).

Con lui abbiamo «ripercorso» alcuni temi affrontati nella sua relazione.

Sono stati 66.413 gli aborti «legali» praticati nel 2020, secondo la relazione del Ministero della salute trasmessa al parlamento. Nel 1983, dunque cinque anni dopo la promulgazione della legge 194, erano stati 234.593. A quali fattori si deve questo calo?

«Certamente ad una crescente riduzione del numero di donne in età fertile e, nel contempo, ad un aumento di casi di infertilità maschile o femminile. Ma anche ad una diffusione sempre più capillare dei cosiddetti “contraccettivi di emergenza”. Lo mette in luce, ad esempio, la relazione 2020 del Ministero della Salute. Cito testualmente: “la riduzione del numero [degli aborti] osservata negli ultimi anni potrebbe essere in parte riconducibile all’aumento delle vendite dei ‘contraccettivi di emergenza’ a seguito delle tre determine Aifa che hanno eliminato l’obbligo di prescrizione medica per l’Ulipristal acetato (ellaOne), noto come ‘pillola dei 5 giorni dopo’ … e per il Levonorgestrel (Norlevo), noto come ‘pillola del giorno dopo’… La terza determina Aifa ha eliminato l’obbligo di prescrizione per l’Ulipristal acetato anche per le minorenni…”».

Interessante…

«Ma non del tutto corretto. Le due pillole sono classificate come “contraccettivi d’emergenza”. In realtà, non si tratta affatto di contraccettivi, come la denominazione e il Ministero parrebbero suggerire, bensì tali “farmaci” devono gran parte della propria efficacia al meccanismo abortivo insito nelle pillole, criptoaborti naturalmente non conteggiati nel numero statistico totale. Lo stratagemma è reso possibile in forza di una malcelata definizione pseudoscientifica di “gravidanza” (si vedano le definizioni dell’Acog del 1965 e 1972 e dell’Oms del 1985), che fa coincidere arbitrariamente l’inizio di quest’ultima con l’annidamento, anziché con il concepimento, facendo sì che tutti gli interventi realizzati prima dell’annidamento non siano più – a torto – definiti abortivi. Diffidiamo, dunque, da quanto si legge nei bugiardini delle famigerate pillole. La percentuale d’efficacia che notiamo, spacciata per “contraccettiva”, in verità si preoccupa soltanto di rassicurare dalla “sorpresa” di un “bimbo in braccio”. Prendiamo ad esempio ellaOne. I seri dati scientifici ci dicono che l’efficacia antiovulatoria (per intendersi, la capacità di bloccare l’ovulazione) della “pillola dei cinque giorni dopo”, attestata intorno al 48-55% (già molto poca), scende considerevolmente man mano che si avvicina il picco dell’ormone LH (l’ovulazione in questi casi è ritardata soltanto nell’8,3%), ossia è molto ridotta proprio in coincidenza di più alte probabilità di un’eventuale gravidanza. Se l’efficacia del “farmaco” propagandata è veritiera, questa deve quindi risiedere soprattutto negli effetti post-fecondativi (alias abortivi). E questo vale anche per la “pillola del giorno dopo”, il cui principio attivo, a differenza della prima, è un progestinico. La pillola si configura, dunque, a tutti gli effetti come un preparato chimico potenzialmente abortivo».

Quali questioni etiche solleva la recente determina dell’Agenzia italiana del farmaco, che ha eliminato l’obbligo di prescrizione medica per le minorenni che intendono acquistare la pillola dei cinque giorni dopo?

«Tempo fa lessi un convincente articolo di Giorgia Brambilla – bioeticista e teologo moralista presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” – dedicato alla diffusione di questi “farmaci” – e alle delibere che l’hanno favorita. Brambilla annotava “cinque schiaffi morali dopo” prodotti dal rendere sempre più facile l’accesso a questi prodotti:

– genitori sempre più ignari della vita della propria figlia;
– medici esautorati dalla necessaria supervisione, considerati i ben noti danni epatici (occulti) cagionati dalla pillola;
– la condotta diseducativa dello Stato, che incentiva ancor più il male;
– l’ulteriore sgretolarsi della relazione affettiva tra i giovani, improntata sulla logica dell’uso;
– la vita, infine, eradicata al suo sorgere.

Anche Assuntina Morresi, all’indomani dell’eliminazione dell’obbligo di ricetta per le minorenni così commentava su Avvenire: “(…) La ricetta continuerà ad essere necessaria per prescrivere un antibiotico per la gola, ma per questa pillola non lo sarà più. Il che dà la misura dell’idea di famiglia alla base di queste decisioni: un luogo che deve accudire solo fisicamente. Per tutto il resto la famiglia è bene escluderla”».

Ha ragione chi ritiene che sia «meglio prevenire che abortire», dove per «prevenire» si intende ricorrere agli anticoncezionali in un atto sessuale?

«Guardi, a me questo slogan non convince. I dati ci dicono il contrario e cioè che la contraccezione non previene realmente l’aborto. E questo perché l’anti-life mentality insita nella contraccezione presenta comunque l’aborto come soluzione in caso di gravidanza “indesiderata” e perché l’utilizzo della contraccezione è indubbia causa di relazioni promiscue e instabili che aumentano le gravidanze “indesiderate”. E poi, come le dicevo poco fa, è acclarato che l’abortività è insita nelle stesse pillole definite, a torto, contraccettive d’“emergenza”».

Ancora poco conosciuti, invece, nonostante gli sforzi dei consultori familiari Ucipem e di ispirazione cristiana, sono i metodi naturali di regolazione della fertilità (due su tutti il Billings e il sintotermico) che partono da presupposti e prospettive profondamente diverse. E sono certamente più salutari per la donna…

«Il dilagare degli effetti collaterali per la salute fisica femminile, dovuti al diffondersi della contraccezione ormonale, sta inducendo oggigiorno molte donne a sposare, nella loro condotta sessuale, una nuova tendenza di stampo naturalistico. Preoccupate per la propria “salute”, esse optano per metodi più “naturali” anche in merito alle “scelte contraccettive”. Prospera così il mito della “contraccezione naturale”, vera e propria contraddizione in termini, a meno che non s’intenda distorcere l’autentico significato del termine “naturale”, preferendo relegarlo all’ambito esclusivamente fisico. Di questa confusione di pensiero è controprova il fatto che, ad  esempio, il Ministero della Salute classifichi pacificamente il coito interrotto fra i più comuni “metodi naturali”, per giunta inseriti a loro volta nei metodi contraccettivi. Il problema della contraccezione – si sa – non è tanto il suo carattere artificioso, quanto la scelta deliberata del comportamento contraccettivo sotteso che la accompagna (intrinsecamente cattivo perché “innaturale”) e dal quale non è esente, in questo caso, neppure la soluzione naturale. Tale comportamento – sia chiaro: ci riferiamo qui ai coniugi – si oppone direttamente alla virtù della castità coniugale; diverso sarebbe, invece, lo spirito originario dei metodi naturali tradizionali, quali utili strumenti a servizio della castità coniugale (corroborata, se necessario, dalla continenza periodica) e, ultimamente, della carità. È una questione di virtù. Per cui, certo, i metodi naturali sono più “salutari”, ma nel senso più umano e cristiano del termine. La disciplina, richiesta dalla continenza periodica, «propria della purezza degli sposi, ben lungi dal nuocere all’amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano» (Humanae vitae, 21). I frutti per gli sposi sono dunque serenità, pace, attenzione per l’altro, bandimento dell’egoismo, ecc. La filosofia della contraccezione, d’altro canto, non tiene cinicamente conto della moralità insita nella sessualità umana, trascurando di preservare la purezza della persona umana in relazione al proprio agire. Prendono inoltre piede applicazioni virtuali (app) delle quali il rimedio naturale appare esclusivamente più “benefico” per l’organismo».

Sono sempre più numerose le donne che all’aborto chirurgico prediligono l’aborto farmacologico, perché meno invasivo e perché ritenuto più sicuro. Ma è proprio così?

«È “la favola dell’aborto facile”, come Morresi e Roccella titolarono un documentato volume anni fa. In quegli stessi anni il ginecologo radicale Silvio Viale, promotore e strenuo difensore della Ru486, non nascondeva come molte donne si rivolgessero all’ospedale pensando che la “pratica” dell’aborto farmacologico si riducesse all’assunzione di una semplice pillola e – subito dopo – il ritorno immediato a casa; ma che non fosse affatto così, perché – parole sue – “è più facile farsi operare che inghiottire una compressa” e perché l’aborto chimico è un atto psicologicamente più doloroso di quello chirurgico. La Fda anni fa già riportava come nella fase espulsiva le donne  lamentano dolori addominali e crampi (96%), nausea (61%), mal di testa (31%), vomito (26%), diarrea (20%) vertigini (12%), ai quali si aggiungono, seppur con bassa frequenza, anche brividi, febbre alta, considerata pericolosa qualora superi i 38°C, e perdita della coscienza. Sia l’Fda che l’Oms, inoltre, non possono celare il cospicuo numero di decessi associati alla Ru486, capace di scatenare casi di sepsi. Per non parlare, poi, della sindrome postabortiva acutizzata dalla visione dell’embrione abortito, parte del protocollo abortivo, con il suo corredo di angoscia, incubi e pensieri intrusivi. La banalizzazione dell’aborto, dunque, raggiunge il suo culmine proprio con la Ru486, in virtù del fatto che presentandosi con mascherate sembianze, quelle di un’innocua pasticca, la donna non percepisca razionalmente la gravità dell’atto e delle sue conseguenze, quanto meno facilmente prevedibili».

Il ricorso massiccio alla Ru 486 è stato favorito, nel recente passato, dalle linee guida emanate dal ministro Speranza in piena pandemia che hanno dato alla donna la possibilità di ricorrere all’aborto chimico fino alla nona settimana di gravidanza (prima l’asticella era fissata alla settima) e, per di più, in regime ambulatoriale (prima era previsto il ricovero di tre giorni)…

«Definii già a suo tempo “inqualificabile” il tweet in cui l’allora Ministro esaltava le nuove linee guida per aver allargato le maglie dell’aborto farmacologico in base alle “evidenze scientifiche” e in ossequio – a suo dire – alla legge 194, definita nientedimeno che “legge di civiltà”. I paletti imposti dalle precedenti linee guida del 2010 erano già stati aggirati da diverse Regioni, che avevano adottato protocolli propri e tollerato che le donne firmassero anticipatamente per le dimissioni. Più di recente si è andati ancora oltre: consentire l’aborto chimico fino alla nona settimana, anche solo puramente dal punto di vista medico, non è supportato da una seria letteratura scientifica – come ben noto agli estensori delle linee guida precedenti – che mostra invece come l’associazione mifepristone-misoprostolo, con l’avanzare delle settimane, sia tanto meno efficace quanto maggiori siano le complicanze».

Come si è arrivati a queste decisioni?

«Ha “vinto” la linea portata avanti da alcuni ambienti pro-choice, che già a marzo 2020 auspicavano l’aborto telemedico mediante Ru486 giustificando questa scelta con la necessità di ridurre le ospedalizzazioni non necessarie, per arginare l’epidemia ed evitare così inutili esposizioni al contagio. Insomma, con il grimaldello della pandemia si è voluto promuovere la pillola killer a domicilio, con ulteriore privatizzazione e banalizzazione dell’aborto».

Lo «sdoganamento» culturale dell’aborto passa anche dal lessico usato. Un esempio su tutti: il termine «interruzione volontaria della gravidanza» ha sostituito quello di «aborto»…

«Indubbiamente, è una strategia ben nota. Le parole recano in sé un preciso significato e se si distorcono, si distorce la percezione che l’uomo ha della realtà. L’ “Evangelium vitae” definisce chiaramente l’aborto volontario l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita (n. 58). Questa definizione non pone alcun termine ultimo dopo il quale non si possa più parlare d’aborto, contrariamente a quella comunemente proposta dagli ambienti scientifici e laici, che parlano di 180° giorno; né intenzionalmente utilizza l’espressione “interruzione volontaria della gravidanza”, che riconduce l’evento ad un fatto che interessa solamente la donna. Pone, invece, l’accento sulla vita umana nascente, che non può essere interrotta se non sopprimendola – si interrompe solo ciò che si può riprendere – e mette al centro del tema il concepito, che in genere non trova il posto che gli compete nelle definizioni e nei dibattiti del mondo laicista. Definire così l’aborto è nient’altro che un’ipocrisia, un “reato linguistico”.

Vale lo stesso, ad esempio, per la terminologia “aborto terapeutico” che, presa alla lettera, indurrebbe a credere che ci troviamo dinanzi ad un atto curativo. Quello che scorgiamo è, invece, in realtà un atto uccisivo, oltretutto contro il nascituro innocente. La pseudoterapia si rivolge quindi esclusivamente alla madre; e il mezzo con cui ottenere l’effetto “curativo” è nientedimeno che l’uccisione del figlio».

Sono due le pillole (assunte a distanza di 48 ore) utilizzate per il cosiddetto «aborto farmacologico». La prima, il Mifepristone, blocca i ricettori progestinici, dunque l’alimentazione dell’embrione. La seconda, la prostaglandina, ne favorisce l’espulsione. E se una donna, assunto, il primo «farmaco», torna sulla sua decisione?

«Nel 2007, alcuni ricercatori americani hanno ideato una “contro pillola”, l’abortion pill reversal, per invertire gli effetti della Ru486. Alla donna, pentita, vengono somministrate cospicue dosi di progesterone al fine di poter proseguire la gravidanza. Tale “antidoto”, naturalmente, è tanto più efficace quanto più lo si somministri a breve distanza dall’assunzione della prima pillola, il mifepristone. Dopo la seconda pillola, il misoprostolo, le possibilità di successo si rivelano assai scarse e altresì certi gli effetti teratogeni per il bambino. Uno studio di G. Delgado e collaboratori, pubblicato nel 2018, attesta che la somministrazione di progesterone è in grado di invertire gli effetti del mifepristone fino al 68% dei casi. Seguendo il protocollo d’inversione, peraltro, non si è per di più riscontrato alcun aumento del rischio di difetti alla nascita per il bambino. La rete della Abortion Pill Rescue, molto attiva negli Stati Uniti – dove peraltro subisce forte censura mediatica e restrizione della libertà per i medici –, e alla quale sono affiliati numerosi operatori sanitari e medici in diversi Paesi del mondo, ha creato inoltre siti appositi per aiutare le donne pentite, che offrono un servizio di pronto intervento disponibile h24. La donna viene dunque messa prontamente in contatto con il medico a lei più vicino. In tal modo, in questi anni, sono stati già salvati un migliaio di bambini. Qualsiasi medico, in Italia, può prescrivere iniezioni o pillole di progesterone – come suggerisce Renzo Puccetti – per di più a carico del SSN, sotto la semplice indicazione di “insufficienza progestinica”. Un meraviglioso segno di speranza per la cultura della vita».